"Michelle" Questo raconto è tratto da libro di Erica Filippi "Donne coraggiose - Storia dell'emigrazione femminile" Aracne editrice
Tanto tempo fa, un emigrante era una persona che lasciava il proprio luogo di origine, specialmente per trovare un lavoro, ma anche per sete di avventura, per scoprire nuovi mondi. Oggi, queste parole mi sembrano avere una risonanza peggiorativa. Ma che cosa si nasconde dietro queste parole?
Spesso è significa disperazione, dramma e sofferenza, ma anche soddisfazione, crescita del'anima, apertura sul mondo.
In generale, quando si parla di emigrazione, si pensa subito ad un uomo.
Sbagliato!
Vorrei citare un esempio: nel 1890 cinque ragazze italiane - le prime di una lunga serie - già operaie della fabbrica di dinamite di Avigliano, partirono per il Transvaal nel Sud Africa, per essere impiegate come «cartuccere».
Il loro compito era quello di avvolgere le stecche di esplosivo nella carta oleata, esplosivo destinato ai giacimenti auriferi di Baberton. Nel1891, altre 25 ragazze aviglianesi partirono per l’Africa. Il motivo che le spingeva era sì il bisogno materiale, ma anche un giovanile desiderio di avventura, come usava affermare una di loro. Nel 1895 venne registrata la costruzione di una nuova fabbrica di trasformazione della dinamite in loco, dunque ad Avigliano, ma il declino nella domanda di dinamite produsse disoccupazione e molti operai furono costretti, a causa della particolarità della loro specializzazione, ad emigrare nel Transvaal. Altre sei cartuccere raggiunsero la piccola comunità italiana formatasi a Leemofontein. Sempre nel 1895 alcune ragazze spagnole e basche giunsero il Transvaal da Bilbao. L’emigrazione femminile quindi non è un fenomeno recente. Non voglio allungarmi sulle difficoltà incontrate, soltanto pensando al viaggio dall’Italia al Sud Africa, per nave, e in condizioni per lo più disastrose e senza alcuna igiene. Diverse ragazze morivano durante il viaggio e il loro sogno non diventò mai realtà.
Certo, pensando a quanto sopra, il viaggio degli emigranti dall’Italia alla Svizzera sembra una passeggiata. Eppure non era cosi. Negli anni 1950-60 si parlava di un flusso di emigranti italiani. La maggior parte uomini.
Poi, li abbiamo incontrati, erano giovani, sempre in gruppo davanti alla stazione. Noi ragazze passavamo senza girarci, insensibili a qualsiasi loro richiamo. Avevamo l’ordine dai nostri genitori di non fermarci. Chissà perché ci chiedevamo. Perché non c’erano donne? Non capivamo. Poi gli anni passavano. L’integrazione prendeva piede.
Arrivò l’anno 1961. C’erano tante famiglie italiane con bambini, tante bot- teghe con specialità italiane e negozi di vestiti. La moda italiana aveva un grande posto ed era molto apprezzata. Un po’ meno però il fatto che tante ragazze o ragazzi svizzeri si innamoravano dei transalpini.
Nella ditta dove lavoravo, il personale era composto per il 95% da donne italiane, giovani, belle e sempre sorridenti. Cantavano spesso lavorando. Ho conosciuto un uomo in quest’ambiente ed era l’unico tra tante donne. Divenne più tardi mio marito. Poche erano le donne che parlavano francese e cercavo di aiutarle al meglio.
Così nacque tra me e loro una certa complicità e imparai a conoscere meglio gli italiani. Le donne avevano un lavoro molto particolare, pitturavano fiori minuscoli su casse di orologio. Durante l’anno passato in questa ditta, ho visto tante ingiustizie. Il personale (senza di loro, la ditta poteva chiudere) era trattato in modo umiliante, ma per paura del licenziamen-to, tutti tacevano e non reagivano. Eccetto lui, il mio futuro marito, che si ribellava a questa forma di xenofo-bismo. I padroni fecero di tutto per impedirmi di uscire con lui: minacce, denuncia ai miei genitori, ma vista la mia caparbietà nel non ascoltarle, mi licenziarono.
Decisi quindi di partire per Zurigo dove lui mi raggiunse poco tempo dopo. Mi sposai, e devo dire che ho fatto per anni la vita di emigrante nel mio proprio paese, ribelle per temperamento, ho fatto una scelta e non ho lasciato a nessuno la possibilità di interferire con questa scelta. Ogni essere umano ha diritto al rispetto e se ho perso la mia famiglia di origine, ho trovato una vera famiglia dove i valori non hanno prezzo.
Le donne italiane mi hanno insegnato molto. Le donne emigrate che ho frequentato erano donne forti. I problemi c’erano, ma sono convinta comunque che chi ha sofferto di più fossero gli uomini, costretti a confrontarsi ogni giorno con la realtà sul lavoro.
I figli, i miei per primi, non avevano sempre la vita facile. Allora lo xenofobismo era molto forte. Più difficile era la situazione degli stagionali che non potevano in ogni caso avere la famiglia vicino.
Ho conosciuto uno zio di mio marito, stagionale nel Vallese, alloggiato in una baracca di legno senza riscaldamento. Sei mesi, senza vedere la sua donna e i propri figli. Ed a quei tempi non c’era Internet, il telefono costava, dunque si aspettava con ansia il postino che portava notizie.
Quante lettere ho scritto per conto di questi stagionali che non sapevano scrivere e dovevano pure contare su una persona amica per leggerle! Il mio pensiero va a quelle donne, rimaste in Patria sole per educare i figli e che aspettavano ogni mese i soldi che il marito spediva loro per andare avanti.
Il ruolo della donna? Lottare al fianco del marito o lottare da sole? Donne coraggiose per scelta o dovere?
Non ho risposta. Nel 1966, io e mio marito emigrammo nel Sud Africa e nel mio ruolo di donna emigrante, con un figlio di poco più di due anni e in attesa di un altro, non è stato facile ma si sa che quando si ama un uomo si è pronti a seguirlo in capo al mondo. Laggiù abbiamo vissuto per 13 anni. I problemi sono uguali qui come lì.
La vita ci appartiene, ed è quello che ne facciamo che conta. In Sud Africa - si può dire in capo al mondo - eravamo tante donne emigranti, di tutte le nazionalità, e probabilmente era quello che ci aiutava. Nuovi amici, nuovi ambienti, nuova lingua, non c’era la speranza di dire “a Pasqua e per le ferie andiamo in Italia”. Queste Feste si passavano con gli amici e piano piano, forse clima aiutando, era-vamo una grande famiglia multilingue.
Anche là niente Internet né telefono, ma avevamo i nostri mariti, i nostri figli e ci sentivamo felici. Lì, comunque, i problemi di xenofobismo non erano forti quanto in Svizzera. Vivere in un paese nuovo, con poca ostilità, scoprire nuove cose, nuova gente. Per emigrare bisogna avere una certa dose di coraggio, ma soprattutto essere aperti e sapersi adattare. Non è il paese che ci riceve che deve adattarsi, ma noi. Certo non erano fiori. Anche se i tempi sono cambiati, emigrare rimane un atto coraggioso. Andare contro l’incognito non è mai cosa facile. Una volta non si poteva sempre scegliere il proprio destino, oggi è ben diverso.
Ma proviamo un po’ a pensare come i tempi sono cambiati. La povertà ha spinto l’uomo ad emigrare, e chi l’ha fatto deve soltanto essere rispettato. Ma nessuno è stato mai costretto. Chi emigrava pensava di farlo per un po’ di anni, il tempo di mettere da parte quattro soldi per farsi la casa, ma talvolta portando con sé la famiglia, spesso non tornava indietro. Le donne che ho conosciuto non si lamentavano. Spesso penso alle donne single dell'800 che sono emigrate oltre oceano, quelle sì che le chiamerei donne coraggio. Un viaggio in condizioni disastrose, senza igiene, poco mangiare, chiuse dentro una stiva di nave con altre decine di emigranti, donne e uomini, tutti insieme. All’arrivo bisognava poi fare i conti dei morti.
Con questo non vorrei dire che le donne emigranti dei tempi recenti abbiano sempre avuto la vita facile. Ma oggi si può far conto di un risultato vincente: i figli sono cresciuti, la maggior parte ha un mestiere, e la famiglia spesso si è integrata nel paese che era tanto ostile, ma che ormai è diventato una seconda patria.
Chi voleva rimpatriare non l’ha fatto e i loro figli non ci pensano nemmeno, hanno fatto la loro vita qui e le radici sono ancora molto presenti e lo saranno per sempre.
Quando un popolo desidera che gli altri riconoscano onore e giustizia alle proprie fatiche, deve cominciare a farsene narratore e descrittore egli me-desimo. Il mio pensiero: oggi l’emigrazione è sempre presente ma è cambiata. Arrivano Africani, Musulmani ecc. Lo xenofobismo non esiste quasi più. Gli emigranti italiani hanno preparato il terreno. I nostri ricordi buoni o meno sono pur sempre presenti. I nostri figli si sentono italiani nel cuore, la cultura che gli abbiamo inculcata è tenace ed è la nostra ricompensa. Anche se non hanno mai vissuto in Italia sono Italiani (per lo meno la maggior parte di loro).
Sono svizzera di origine, italiana per matrimonio, ho vissuto gli ultimi anni con mio marito in Spagna, senza contare i 20 anni in vari paesi dell’Africa. In ogni paese ho lasciato un po’ del mio cuore.
Guardiamo soltanto le belle cose di ogni paese, la fortuna che abbiamo avuto di poter viaggiare e soprattutto ricordiamoci che la terra è una sola e che dunque siamo tutti sulla stessa “nave”.
Allora emigranti italiane o altre, potete essere orgogliose del vostro cammino e avete una bella storia da raccontare ai vostri nipotini.
A cura della Redazione
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