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Alberigo Albano Tuccillo

La calura ci ha stretti nella sua morsa da qualche settimana. É tempo di cercasi un posto al fresco e un periodo di lettura attiva. Ma chi, cosa e in quale lingua leggere?

Personalmente mi è capitato di leggere dapprima la traduzione di un libro. Poi, incuriosita dalla biografia dell'autore, dell'autrice, ho riletto il libro nella "sua" da me presunta lingua originaria. Semanticamente ho ritrovato spesso il contenuto. Emotivamente, ho puntualmente constatato una grandissima differenza. Sulla scia di questa mia esperienza, vi invito a scoprire o a rileggere un autore che riunisce la lingua romantica e romanica con quella razionale e germanica già nel suo nome.

  1. Salve, come preferisce essere chiamato?
    Alberigo per me va benissimo. Così mi chiamano quasi tutti. A Napoli spesso lo troncano in Alberì.
  2. Il nome Alberigo è già per sé tutta una storia. Ci vuole raccontare il suo significato?
    È un nome ricorrente in famiglia. Ho un bisnonno, uno zio, un cugino e altri parenti che lo portano o lo portavano. È un nome germanico che significa re degli elfi. Sono noti l’Alberich di Wagner e, nella variante inglese, l’Oberon di Shakespeare. In italiano è piuttosto raro.
  3. E Albano?
    Albano è il nome del nonno materno a cui volevo particolarmente bene. È il motivo per cui come scrittore ci tengo a usare anche il secondo nome.
  4. Come mai si trova in Svizzera tedesca?
    È una lunga storia. Papà era carabiniere e per vari motivi dovette lasciare l’arma. Poi non trovò più lavoro in Italia. Una mia zia lavorava già in Svizzera e gli spianò la strada. Così venne in Svizzera, prima lui solo, poi lo seguimmo anche io e mamma.
  5. Perché ha iniziato a scrivere, quando e in quale lingua?
    Mio nonno materno, Albano, era un narratore straordinario. Adoravo ascoltarlo, anche per delle ore, quando raccontava le sue goliardate da giovane o come aveva conosciuto la nonna. Fu indubbiamente lui a infondermi la passione per il narrare. — La lingua? Alle elementari, a differenza di mia sorella che era bravissima, io in tedesco ero una frana. Non lo volevo imparare. Era una materia seccante che purtroppo bisognava studiare per evitare rimproveri e castighi. A lungo non l’ho sentita come una lingua mia. Che un racconto lo si dovesse scrivere in italiano lo davo per scontato. Fino all’età di diciotto o diciannove anni non mi sarebbe passato per la mente di scrivere un racconto in tedesco, né tantomeno una poesia. Col tempo poi, leggendo, scoprendo autori, autrici, poetesse e poeti tedeschi, austriaci e svizzeri cominciai gradualmente ad innamorarmi anche della mia seconda lingua. Il mio primo romanzo, «Il racconto del faro» l’ho scritto, almeno in parte, prima in italiano, poi l’ho tradotto in tedesco. Anche perché stando in Svizzera tedesca era pressoché impossibile trovare un editore che me lo pubblicasse in italiano.
  6. Su cosa scriveva e scrive attualmente?
    Colleghi più anziani mi hanno sempre sconsigliato di voler fare di tutto: poesia, narrativa, teatro — sia in italiano che in tedesco. Penso che sia un ottimo consiglio. Ma non sono mai riuscito a seguirlo.
  7. Ci vuole presentare i Suoi libri, le Sue opere?
    Temo che in poche parole non riuscirei a dire cose sensate. Ma per chi volesse ricevere qualche ulteriore informazione in merito, invito a visitare il mio sito http://www.tuccillo.ch
  8. La stesura primaria avviene in italiano o in tedesco?
    A volte in italiano, a volte in tedesco. «Il racconto del faro», ad esempio è un romanzo con doppia cornice. Il racconto interno, come dicevo poc’anzi, lo avevo scritto in italiano quando avevo vent’anni. In seguito, mi occupai intensamente di E.T.A. Hoffmann. Fu in quel periodo che scrissi la prima cornice in tedesco. Lì però mi arenai. Non riuscivo a far quadrare il tutto, abbandonai il lavoro per cinque anni e mi dedicai ad altro. Trovai poi la soluzione e la voglia di riprendere il lavoro quando mi dedicai a Italo Calvino e a Paul Auster. Scrissi la seconda cornice in italiano e fui soddisfatto. Ora però avevo in mano un romanzo per metà italiano e per metà tedesco, quindi tutto da riscrivere: in tedesco, poi in italiano.
  9. Quando un Suo libro è una traduzione del testo primario?
    Mai. Per quanto penso di essere un ottimo traduttore, i miei propri testi non sono capace di tradurli. Sono sempre dei rifacimenti nell’altra lingua. Quindi ne risultano due testi primari equipollenti, due originali.
  10. Cosa non ridà a Suo parere la traduzione di un Suo libro?
    Come sostiene Umberto Eco, tradurre è: dire quasi la stessa cosa. Una traduzione perfetta è un’illusione irraggiungibile. In alcuni casi, però, la traduzione può essere addirittura più vicina all’intenzione originale dell’autore. Le faccio un esempio: Nel testo di Astérix di René Goscinny vi è un’esclamazione ricorrente: «Ils sont fous les romains!» che tradotto in italiano è: «Sono pazzi questi romani.» La traduzione italiana offre l’acronimo SPQR, quindi spunti per giocarci sopra, l’originale francese no.
  11. Come vive da italiano il bilinguismo, italiano-Schwyzerdütsch nella Svizzera tedesca?
    Da linguista incallito, manco a dirlo, mi interessano tutti i dialetti di tutte le lingue. Mi dà terribilmente fastidio, però, che nella Svizzera tedesca la lingua sia ormai relegata alla scrittura. Oralmente si fa uso esclusivamente dei vari dialetti. Parlare in lingua tedesco, per uno svizzero tedesco, è una cosa che semplicemente non si fa. Durante il servizio militare ho notato che basilesi e zurighesi che faticavano a capirsi con vallesani e friburghesi, piuttosto che parlarsi in lingua tedesca, preferivano comunicare in francese, che oltretutto entrambi parlavano malissimo. — La mia compagna è tedesca del nord e non capirebbe una parola se le parlassi nel dialetto di Basilea o di Soletta. Per me è un sollievo poter parlare in una lingua senza dovere dare spiegazioni a nessuno.
  12. Secondo Lei, la lingua italiana, pur essendo legalizzata nella Costituzione Elvetica, viene veramente valorizzata?
    Beh, l’italiano non è una droga. (Per quanto: per noi due forse sì.) Direi che è lingua ufficiale. Ma ciò vuol dire poco. Una lingua viene usata se è utile e scompare se è inutile. Il romancio in Svizzera è una lingua ufficiale, l’inglese no. Ma sul treno da Basilea a Coira gli annunci in tedesco sono tradotti in inglese e non in romancio. Ed è giusto così. Perché fare una traduzione di cui nessun passeggero ha bisogno e lasciare ansiosi d’informazione viaggiatori che hanno diritto di essere informati? L’italiano perde importanza, non perché è poco tutelato, ma perché l’Italia non ha più il peso geopolitico è culturale che più di mezzo secolo fa cominciava a raggiungere. Siamo un popolo che non legge più, le nostre menti eccelse vanno all’estero, in Europa non abbiamo più voce in capitolo, sono ormai decenni che i vari Berlusconi, Renzi e compagni ci fanno fare nel mondo figure imbarazzanti. Ma di che ci lamentiamo? O risolviamo i problemi a casa nostra o l’italiano prima poi rischia di fare la fine dell’irlandese gaelico, del bretone e del provenzale.
  13. A Suo avviso, noi italiani, non dovremmo partire avvantaggiati ad ottenere la doppia cittadinanza, italiana e svizzera?
    Domanda difficile e questione irresolubile. Mi rendo conto che debba essere la politica e l’amministrazione a definire le regole. D’altra parte, però, queste regole non possono rispecchiare una realtà complessa. Io sono indiscriminatamente sia svizzero che italiano, mio fratello lo è un po’ meno. Mia sorella è svizzera come lo sono i miei figli. Mamma era diventata svizzera pur non parlando il tedesco mentre papà era rimasto puramente italiano nonostante le sue ottime conoscenze linguistiche. Non parlo di passaporto e di diritto di voto che in famiglia abbiamo tutti. Cerco solo di riflettere sulla sua domanda: In alcuni casi sarebbe giusto e in altri casi no. Qualunque decisione prenda la politica, le ingiustizie non potranno essere evitate; forse nemmeno limitate.
  14. Lei ha vinto numerosi premi letterari, quale è il più importante per Lei?
    Nel 2004, in una gara di scrittura della «Arena Literatur-Initiative Riehen» furono scelti dieci racconti da una giuria composta da critici e professori di letteratura. Poi questi ultimi dieci rimasti in sella dovettero leggere i loro testi in pubblico, e lo stesso pubblico scelse il vincitore, per votazione. Fu assai commovente sentirmi premiato da gente che aveva assistito alle letture per il solo interesse e per il piacere di prendere parte alla manifestazione, che aveva pagato il biglietto e che col voto non voleva dire altro che «questo racconto mi piace».
  15. Di recente è uscito il Suo ultimo libro in tedesco: di cosa parla? Lo tradurrà o lo farà tradurre in italiano?
    «Geschichten ohne festen Wohnsitz» è già tradotto, poiché «Storie senza fissa dimora» l’ho scritto prima in italiano. Prima o poi uscirà anche in italiano. Sono quattordici racconti che riflettono vari modi di appartenere o non appartenere a un’area linguistica, politica, sociale, ideologica, religiosa, economica o di mera convenienza.
  16. I Suoi libri vengono tradotti in altre lingue? Quali?
    Nessuna proposta finora. Un professore di letteratura inglese dell’università di Basilea aveva cominciato a tradurre i «Racconti di cento e una notte d’insonnia» e diceva di voler fare la tradizione di tutte le mie opere. Aveva perfino ottenuto una mezza promessa da un editore londinese. Purtroppo, quel professore è morto giovane. È triste. Era una persona deliziosa.
  17. Nell’era dei blog e dei social, vale la pena scrivere e pubblicare un libro?
    In che senso vale la pena? Se uno si pone questa domanda è meglio che lasci perdere. Scrivere, almeno per me, non è una scelta come un’altra. A chiunque ritenga la scrittura un’opzione come un’altra, sconsiglio di mettersi a scrivere. Scrivere è un lavoro duro, faticoso, mal remunerato, raramente apprezzato. Chi sente di poter fare un altro mestiere, faccia un altro mestiere.
  18. Cosa consiglia a una persona che vorrebbe scrivere un libro?
    Soprattutto di leggere, leggere molto e di tutto. E di studiare! Incessantemente. Non solo le varie poetologie, ma qualsiasi cosa riguardi l’essere umano, la natura, la storia, il linguaggio… tutto! Non si tratta né di diventare onnisciente, né di voler insegnare nulla ai lettori. Si tratta semplicemente di un atteggiamento, a mio avviso fondamentale: essere mossi sempre dall’amore per il sapere e dall’umiltà che ci rende consapevoli del fatto che anche le nostre più ferree convinzioni vanno costantemente riviste, esaminate, aggiornate, modificate, talvolta abbandonate. Bisogna essere scettici di chi vuol far credere di aver definitivamente capito tutto.
  19. Si impara a scrivere? Impartisce Lei dei corsi di scrittura?
    Ottima domanda! — Sì, certo. È un fatto strano che questa domanda non la si ponga per la musica, per la pittura o per l’architettura. Pare ovvio che un compositore debba formarsi al conservatorio, una pittrice debba studiare all’accademia d’arte, l’architetto si laurei in architettura. Gli scrittori e le scrittrici invece si pensa che nascano tali già bell’e fatti. E a chi obietta che non si diventa uno Schiller o un Pirandello seguendo un corso di scrittura, rispondo che non si diventa uno Chopin né un Renzo Piano conseguendo un diploma del conservatorio o una laurea in architettura. — Ho insegnato scrittura creativa per vent’anni.
  20. In che lingua sogna?
    È un fatto curioso: Sogno sempre in una sola lingua. Se il sogno comincia in italiano, continuerà in italiano e tutti parlano italiano, anche quelli che in realtà non lo sanno, e la stessa cosa se il sogno comincia in tedesco. Soltanto i miei genitori nei miei sogni parlano esclusivamente l’italiano. E quando sogno i miei genitori, anche se il sogno è cominciato in tedesco, poi prosegue in italiano. — Comunque, da qualche anno in qua è raro che la mattina ricordi un sogno.
  21. In che lingua ha gli incubi?
    Quindici anni fa feci una psicoterapia classica. Fu un’esperienza preziosa. D’allora mi sono sbarazzato degli incubi. Non ne ho mai più avuti. Ma per rispondere alla sua domanda sulla lingua: Anche per gli incubi varrebbe ciò che ho già detto sui sogni in generale.
  22. In che lingua pensa?
    Noi ci illudiamo di pensare in una determinata lingua. In realtà pensiamo in un linguaggio riservato al cervello che parecchi linguisti e neurologi chiamano pensese. Prima di parlare o di scrivere, il cervello, senza che ce ne rendessimo conto, traduce il pensiero dal pensese nella nostra prima lingua vera e propria. Essendo perfettamente bilingue, la lingua in cui penso dipende dalle circostanze. Quando sto con i miei figli, con in miei fratelli, cugini e le mie nipoti penso in italiano, quando compilo la dichiarazione delle tasse, in tedesco. Dipende soprattutto dall’argomento.
  23. In che lingua si sente a casa?
    Non c’è differenza: mi senti completamente mio agio in tutt’e due, ambedue le lingue le sento come mie.
  24. In che lingua dice «Ti amo»?
    Ahimè, l’amore erotico è un’esperienza che in italiano non ho fatto in tempo a fare, e ormai è troppo tardi. Mi sarebbe piaciuto dirlo in italiano.

Grazie per il Suo tempo e per la chattata.
Sono io a ringraziare.

Di Graziella Putrino

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