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Enrica Filippi si racconta

Il coraggio di iniziare un cammino di cui conosci soltanto il punto di partenza

Il mio viaggio verso la Svizzera inizia nel 1997. Fu in quell’anno infatti che conobbi mio marito Roberto, cresciuto in Svizzera da genitori italiani emigrati dalla Calabria. Secondo di quattro figli, tre maschi e una femmina. Famiglia di operai, molto chiusa e già provata dalla morte del più piccolo dei fratelli all’età di circa due anni. L’integrazione in Svizzera non era per loro un tema e l’obiettivo, come del resto per molte famiglie di allora, era di ritornare in Italia con la pensione.

I genitori, i miei suoceri, tornarono a vivere in Italia mentre i figli sono rimasti in Svizzera con le proprie famiglie. La proposta di andare in Svizzera mi attirava tantissimo. Avevo letto molto su questo Paese e mi affascinava. Negli anni tra il 1994 e il 1997 lavoravo, in qualità di responsabile amministrativa, in un’azienda internazionale che commerciava con la Svizzera. Ricordo che quando arrivavano gli svizzeri era per me un piacere: semplici nel vestiario e sempre sorridenti. Così mi feci un’idea della Svizzera come di un paese severo nelle regole ma simpatico e affascinante.

Il fatto poi che io non avessi mai viaggiato oltre i confini regionali, il Veneto, mi faceva credere che tutto, oltre la soglia di casa, fosse affascinante! In effetti dell’estero avevo una visione solo positiva: così quando andai in Grecia su una nave da crociera, con mia sorella e mia madre, vidi poco ma l’atmosfera del viaggio in sé e la compagnia incontrata sulla nave erano così fantastici che associai all’estero una combinazione di felicità e fortuna. Non passarono molti mesi che presi la decisione di partire con mio figlio Robertino per la Svizzera.

Così partii per un viaggio del quale conoscevo solo il punto di partenza, il mio paesino in provincia di Treviso, Borso del Grappa. Volevo realizzarmi , volevo che mio figlio Roberto, all’epoca di quattro anni appena, crescesse con una mentalità aperta e non tradizionalista. Arrivai in Svizzera a luglio dell’anno 1997. Il viaggio fu molto lungo per me abituata a brevi tratti di autostrada! Fu bello attraversare la verde Austria, fermarsi lungo la strada e osservare qualche cerbiatto ascoltando solo le nostre parole e risate.

Robertino allora chiamava “cerbiattoli” i cerbiatti. Eh sì, era piccolino, appena quattro anni, con il suo succhiotto e il capellino azzurro. Oggi, guardandomi indietro, ho qualche momento di stupore: con quanto coraggio presi quella decisione di partire? Non avevo lavoro in Svizzera e gli stranieri che arrivavano avevano tre mesi di soggiorno garantiti a titolo di “turisti” con la conseguenza di un obbligo di assicurazione carissima e di controlli rigidi.

Pensate che erano appena quattro anni che era stata varata la legge che riconosceva pari dignità alla donna permettendole di mantenere la propria cittadinanza! Infatti fu dal 1992 con la legge 91 che donne come me, arrivate all’estero non avrebbero dovuto più rinunciare al passaporto italiano. Certamente fa tristezza pensare che prima del 1992 molte erano le donne che si trovavano nella condizione di straniere in Svizzera e straniere anche in Italia!

All’esame per ottenere il passaporto svizzero, che sostenni nel 2001 c’erano circa dieci persone scelte tra il personale amministrativo del Comune e il Sindaco stesso. Mi chiesero sulla storia, geografia, politica e amministrazione statale e cantonale. Certo che sia come storia che geografia non fu difficile imparare le nozioni necessarie, ma essendo il tutto in lingua tedesca non fu facile.

Eppure la lingua italiana è una delle lingue nazionali, ma purtroppo, eccezion fatta per il Ticino, in Svizzera pochi parlano la lingua italiana. Bene, torniamo all’esame. Sul finire dell’esame mi fu fatta una domanda ossia se fossi disposta a rinunciare al passaporto italiano. Fu fatta per capire se io fossi a conoscenza sul cambiamento della legge (quella del 92). Tranquillamente risposi che dal momento che la legge autorizzava la doppia cittadinanza tale problema non si poneva per me.

Ricordo che qualcuno, anni prima si azzardava a rispondere con un “mai” pesante, tanto da farsi “bocciare”. Mi ponevo positivamente a questa mia nuova vita e la mia volontà era di integrarmi anche nella vita sociale perché così, secondo me, deve essere quando si entra far parte di una nuo,va comunità. Ne ero orgogliosa! Fui messa sul giornale insieme a mio marito e alla piccola Serena di pochi mesi. Mio marito e Serena ottennero il passaporto un anno prima di me e di Robertino!

Questo per la giusta precedenza data a mia figlia nata in Svizzera e a mio marito qui residente da trent’anni. Comunque, dopo un anno arrivò anche per me quest’onore. Quando vidi Zurigo per la prima volta rimasi colpita dalle luci, dalla grandiosità dei locali e dalla moltitudine di persone che affollavano la stazione. Mi sentivo importante, non so come mai, ma si sembrava di aver sempre voluto arrivare qui. Strano vero?

Era fantastico poter vedere scendere la neve così fitta in inverno, ad agosto assaggiare l’umidità della pioggia. Insomma, cose nuove, sentimenti nuovi. All’inizio non fu facile: il controllo della polizia degli stranieri, tanta burocrazia per poter iscrivere il figlio all’asilo svizzero mentre a me l’amministrazione comunale mandava periodicamente l’avviso che se non avessi trovato lavoro avrei dovuto lasciare la Svizzera entro tre mesi. Proprio per contrastare questa possibilità cominciai quindi una serie di telefonate a tutte le industrie, uffici e scuole italiane o che almeno dal nome mi davano tale parvenza. Trovai la mia prima opportunità presso la Dante Alighieri di Zurigo.

Svolgevo le mie lezioni settimanali a Zurigo e qualche volta portavo con me Robertino dato che mio marito lavorava fino a notte. Dopo un anno cominciai a sviluppare un progetto di lavoro sull’italiano come ingua commerciale. Il progetto ebbe successo e nacque il primo diploma Plida di lingua italiana commerciale e i miei corsi si riempivano. Contemporaneamente fui impiegata al Rosenberg (San Gallo) presso la sezione italiana e lì insegnai Ragioneria, Tecnica e sostituivo gli insegnanti di altre materie secondo la necessità.

Conobbi lì un bellissimo ambiente di cui mi è rimasto nel cuore il ricordo. Ero stata assunta provvisoriamente in sostituzione di una insegnante ministeriale del Trentino. Era in ospedale e sarebbe rientrata in Svizzera solo a febbraio e così potei prolungare il mio permesso di soggiorno fino a quel momento. Era l’anno 1997. Mi sembrava di aver fatto una strada lunghissima e che fossero passati anni e invece no, erano passati solo pochi mesi dal mio arrivo ma vissuti con una grandissima intensità personale. Ricordo che il primo giorno di asilo di Robertino, lo accompagnai e lui timidissimo, si stringeva a me per non lasciarmi.

Rimasi con lui fino all’ingresso ma poi decisi di salutarlo e “abbandonarlo” quasi a questo suo nuovo progetto. Pianse molto nel vedermi andare via e una signora addirittura mi rimproverò per questo atto di freddezza. Era un’italiana nata e cresciuta in Svizzera. Le spiegai che a restare lì avrei reso mio figlio debole e gli avrei fatto credere che da solo non avrebbe mai potuto farcela. Al suo ritorno a casa Robertino aveva già un paio di amici che desideravano giocare insieme a lui e in poco tempo apprese la lingua e il dialetto locale. Fantastico lui, mi dicevo. Un progresso meraviglioso e tutto da solo. Ne sarà sempre orgoglioso, sono sicura. Intanto andavo a San Gallo a insegnare e nonostante la paga di poco più di venti franchi l’ora (lordo) compresa malattia, ferie ecc, l’ambiente era caldissimo, fatto di gioia, risate e sto  rie di persone come me.

A pranzo ci raccoglievamo nella stanza, l’unica peraltro, a leggere, chiaccherare e mangiare frutta e torte preparate da ciascuno di noi. Era una seconda famiglia e mi sentivo importante perché facevo qualcosa deciso da me, che mi piaceva tantissimo. Anche in Italia insegnavo ma era diverso. In questa scuola, a San Gallo, i ragazzi studiavano la Ragioneria in quattro anni, anziché i nostri cinque, per poi ritornare in Patria con la famiglia. Il loro destino era pertanto segnato. Ma cosa ne pensavano loro? Qualcuno, durante la pausa pranzo, mi confessava di non voler tornare in Italia. “Le ferie sì, ma non per sempre” mi dicevano. In Italia si sentivano più soli, le amicizie erano qui in Svizzera e l’ambiente italiano era lontano dall’assomigliare a questo.

Per me fu un segnale che decisi di tener presente durante l’educazione dei miei figli. Per questo motivo non iscrissi mio figlio al doposcuola italiano e gli feci seguire le scuole svizzere. La lingua italiana si imparava a casa e questo l’ho mantenuto sempre come un obbligo d’amore verso i miei genitori e la mia terra. Ciò che desidero trasmettere con queste poche righe è un sentimento di orgoglio misto a tenerezza e coraggio. Ricordo le parole di mia madre “vai, andare avanti verso ciò che non conosci non è sicuramente facile ma potrai sempre tornare indietro”. Un messaggio di saggezza se pensiamo che effettivamente in ogni momento possiamo decidere di ritornare sui nostri passi mentre è molto difficile iniziare un cammino di cui si conosce solo il punto dipartenza. Si diventa da un lato esploratori e dall’altro maestri di noi stessi.

Ebbi la grande fortuna di conoscere in uno dei miei corsi di italiano commerciale il responsabile di un'azienda internazionale. Per una bellissima coincidenza fui chiamata a lavorare proprio in quella azienda dove trascorsi nove anni al fianco del mio ex allievo! Poi l’azienda fu chiusa e ora lavoro in un ufficio di contabilità a Zurigo.

Di Enrica Filippi

Questo racconto è tratto dal libro di Enrica Filippi "Donne coraggiose - Storia dell'emigrazione femminile" pubblicato da Aracne editrice

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